Passano gli anni ma il defibrillatore continua a mostrare la sua efficacia
di Filippo Stazi
16 Novembre 2020

Numerosi studi ormai storici (1-3) hanno dimostrato la capacità dei defibrillatori impiantabili (ICD) di ridurre la mortalità improvvisa e totale in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra e le attuali linee guida ancora si basano sui risultati di tali trials. La maggior parte di questi studi sono però stati condotti 15 o 20 anni fa e nel frattempo i progressi della terapia farmacologica hanno migliorato la sopravvivenza dei pazienti scompensati. Un’analisi recente (4) su oltre 40.000 pazienti senza ICD, arruolati in 12 trials di terapia farmacologica, ha, ad esempio, dimostrato come dal 1995 al 2014 la mortalità improvvisa si sia ridotta del 44%. Per tale motivo il dubbio se il beneficio degli ICD dimostrato nei trials di 20 anni fa sia ancora valido nel mondo contemporaneo è più che legittimo. Realizzare un nuovo studio randomizzato alla stregua di quelli che sono stati fatti in passato è ovviamente non etico e perciò non eseguibile. Per cercare comunque di rispondere a tale dubbio è stato condotto uno studio prospettico, multicentrico, non randomizzato, che ha coinvolto 15 nazioni del vecchio continente (5). E’importante sottolineare come lo studio sia stato non guidato dall’industria, cosa estremamente rara, e finanziato con i fondi dell’Unione Europea.

Dei 2.247 pazienti inclusi, 1.516 hanno ricevuto un ICD e 731 no. La decisone se impiantare o meno non era oggetto dello studio. Nel complesso i pazienti erano ben trattati farmacologicamente: il 94% riceveva betabloccanti, il 91% Ace inibitori o sartani, il 72% diuretici, il 75% gli antialdosteronici. La frazione d’eiezione (FE) media era del 28%, l’82% dei pazienti era di sesso maschile, il 65% aveva una cardiopatia ad eziologia ischemica e l’età media era 62 anni. Il QRS doveva necessariamente essere stretto in quanto l’indicazione ad una resincronizzazione costituiva criterio di esclusione dallo studio, così come la prevenzione secondaria, le condizioni instabili (NYHA IV o ischemia acuta), un blocco atrioventricolare di alto grado e un’aspettativa di vita inferiore ad un anno. I criteri di inclusione erano invece quelli soliti: FE < 35% con una classe NYHA II o III. L’end point primario era la mortalità totale, il co-end point primario il tempo al primo shock appropriato, l’end point secondario era la morte cardiaca improvvisa (SCD). Dopo un follow up di circa due anni e mezzo l’impianto di un ICD riduceva la mortalità totale del 27%. Anche la SCD era ovviamente considerevolmente ridotta dal dispositivo. Shock appropriati si verificavano nel 2,8% dei pazienti/anno mentre quelli inappropriati erano presenti nell’1% dei pazienti/anno. I pazienti con cardiopatia ad eziologia non ischemica si beneficiavano anche loro dell’ICD, al pari di quelli con origine ischemica della disfunzione ventricolare. I pazienti con classe NYHA II avevano maggior beneficio rispetto a quelli in classe III. I pazienti diabetici e quelli con età superiore a 75 anni non presentavano riduzione della mortalità dopo l’ impianto dell’ICD.

Lo studio, quindi, pur con la grossa limitazione derivante dal non essere un’analisi randomizzata, conferma anche nel mondo contemporaneo l’effetto positivo del defibrillatori nel ridurre la mortalità, nello specifico di circa il 30%, con una grandezza di beneficio sostanzialmente comparabile a quella dimostrata dagli storici trials di venti anni fa che avevano sdoganato l’impiego del defibrillatore. A tal riguardo bisogna però sottolineare che, essendosi nel corso degli anni ridotto il tasso assoluto di mortalità, in virtù dei migliori risultati attuali della terapia farmacologica, la riduzione assoluta della mortalità apportata dal defibrillatore, a parità di riduzione relativa, è al giorno d’oggi inferiore a quella di venti anni fa.

La seconda riflessione suggerita dall’analisi dei dati e che il beneficio osservato in termini di riduzione di mortalità non è completamente spiegato dal tasso di shock appropriati (2.8% per paziente per anno) erogati dal dispositivo. Non si può, ad esempio, escludere che i più frequenti controlli medici cui i pazienti con ICD sono sottoposti, per il solo fatto di avere il dispositivo, possano aver contribuito al risultato.

In ogni caso lo studio conferma l’indicazione all’impiego dell’ICD nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra, mostra che non esistono sottogruppi che vengono danneggiati da tale terapia ma mostra anche che, essendoci categorie di pazienti che non traggono beneficio da tale terapia (anziani e diabetici), che è comunque invasiva e costosa, ogni sforzo deve essere ulteriormente fatto per una più corretta stratificazione dei pazienti e per una migliore identificazione di quelli che possono effettivamente beneficiarsi di tale intervento.

 

Bibliografia

  • Moss AJ, Zareba W, Hall WJ et al. Prophylactic implantation of a defibrillator in patients with myocardial infarction and reduced ejection fraction. N Engl J Med 2002;346:877–883.
  • Bardy GH, Lee KL, Mark DB et al. Amiodarone or an implantable cardioverter-defibrillator for congestive heart failure. N Engl J Med 2005;352: 225–237.
  • Kadish A, Dyer A, Daubert JP et al. Defibrillators in Non-Ischemic Cardiomyopathy Treatment Evaluation (DEFINITE) Investigator. Prophylactic defibrillator implantation in patients with nonischemic dilated cardiomyopathy. N Engl J Med 2004;350:2151–2158.
  • Shen L, Jhund PS, Petrie MC et al. Declining risk of sudden death in heart failure. N Engl J Med 2017;377:41–51.
  • Zabel M, Willems R, Lubinski A and the EU-CERTICD Study Investigators. Clinical effectiveness of primary prevention implantable cardioverter-defibrillators: results of the EU-CERT-ICD controlled multicentre cohort study. Eur Heart J 2020;41:3437–3447.