La sindrome coronarica acuta con alto carico trombotico: novità terapeutiche.
di Laura Gatto intervista Alberto Menozzi
19 Ottobre 2020

I farmaci antiaggreganti rappresentano uno dei cardini della terapia farmacologica delle sindromi coronariche acute (SCA). Nell’ultimo decennio prasugrel e ticagrelor hanno contribuito a migliorare l’inibizione piastrinica nei pazienti con SCA, riducendo il rischio di eventi trombotici al prezzo di però un incremento del rischio emorragico. Nonostante abbiano indicazioni simili, questi due farmaci presentano caratteristiche e modalità di impiego diverse, in relazione ai diversi disegni dei trial in cui sono stati testati. Il Dott. Alberto Menozzi, direttore della Struttura Complessa di Cardiologia dell’ASL 5 Liguria presso l’Ospedale Sant’Andrea di La Spezia, nella sua relazione tenuta nel corso della recente edizione del Congresso Conoscere e Curare il Cuore, ci ha illustrato le principali novità in tema di terapia antiaggregante dei pazienti con SCA.

Dott. Menozzi, l’ISAR REACT 5 (Intracoronary Stenting and Antithrombotic Regimen: Rapid Early Action for Coronary Treatment)1 è stato il primo studio a confrontare “head to head” prasugrel e ticagrelor. Quali sono stati le principali evidenze?

L’ISAR-REACT 5 ha avuto l’obiettivo di valutare se una strategia terapeutica con ticagrelor fosse superiore a una strategia terapeutica con prasugrel nei pazienti con SCA e terapia invasiva pianificata. È corretto in questo caso parlare di “strategia terapeutica” poiché nei due bracci di studio non variava solamente il farmaco utilizzato ma veniva utilizzata una strategia diversa in base all’antiaggregante previsto: prasugrel, come sappiamo, non può essere utilizzato in pre-trattamento e nei casi in cui non venga posta indicazione a rivascolarizzazione percutanea. Il Ticagrelor, che può essere somministrato sia in pretrattamento che dopo la coronarografia, è stato utilizzato nello studio in questione sempre associato al pretrattamento. Sono stati randomizzati 4018 pazienti e quasi la metà (41%) presentava una diagnosi di infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). La strategia basata su prasugrel è risultata superiore a quella basata su ticagrelor nel ridurre l’incidenza di end-point primario a 1 anno (6.9% vs. 9.3%, HR 1.36 95% CI 1.09-1.70, p = 0.006). Questo risultato è stato guidato da una riduzione assoluta dell’1,8% nell’incidenza di infarto miocardico, senza differenze significative tra i gruppi nell’incidenza di sanguinamenti maggiori tipo BARC (HR 1.12; 95% CI 0.83-1.51, p = 0.46).

Quindi in base a questi risultati la strategia con prasugrel risulterebbe vincente?

È innegabile che in questo confronto, ad una prima analisi, la strategia con prasugrel sia risultata vincente. Tuttavia a causa del disegno dello studio non è possibile stabilire quanto il beneficio osservato sia secondario a prasugrel o alla strategia utilizzata nel braccio prasugrel. Infatti, uno dei problemi metodologici è che sono stati contemporaneamente testati due farmaci e due strategie. Tutti i pazienti randomizzati a ticagrelor sono stati anche pretrattati e non vi sono prove che il pretrattamento sia utile nei pazienti con NSTE-ACS. Tuttavia, sebbene l’assenza di pretrattamento con prasugrel possa in parte spiegare un miglior risultato sui sanguinamenti, difficilmente può spiegare il migliore risultato in termini di eventi trombotici. Le stesse considerazioni possono essere fatte sul fatto che per prasugrel fosse prevista una riduzione di dose nei pazienti anziani o con basso peso corporeo. Restano inoltre altre limitazioni, tra cui l’assenza di un disegno a doppio cieco, il follow-up telefonico (con possibile “underreporting” degli eventi) e il fatto che circa il 19% dei pazienti (in entrambi i gruppi) non ha ricevuto il farmaco stabilito alla dimissione. Tale studio sicuramente contribuisce a riabilitare il prasugrel, ma deve essere interpretato con cautela anche sulla base del fatto che i risultati di superiorità di un farmaco rispetto all’altro faticano ad avere una chiara plausibilità biologica.

Che una strategia di pretrattamento possa non avere un reale beneficio nel trattamento dei pazienti con SCA è stato recentemente suggerito dalle linee guida della Società Europea di Cardiologia e dimostrato anche dal DUBIUS, un trial tutto italiano. Cosa ci dice al riguardo?

Lo studio DUBIUS2 è un trial randomizzato multicentrico  condotto in Italia sotto l’egida del GISE che ha arruolato 1432 pazienti con SCA senza sopraslivellamento del tratto ST con indicazione ad angiografia diagnostica precoce (entro 72 ore). I pazienti sono stati randomizzati 1:1 a trattamento upstream con inibitori P2Y12 versus trattamento downstream. Inoltre, nel braccio downstream i pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica sono stati ulteriormente randomizzati a prasugrel versus ticagrelor. L’outcome primario dello studio (composito di morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico, ictus e sanguinamenti BARC 3, 4, 5) si è verificato a 30 giorni nel 2.9% dei pazienti del gruppo downstream e nel 3.3% dei pazienti del gruppo upstream. La differenza tra le due strategie di trattamento non è risultata significativa ed il trial è stato interrotto precocemente per “futility”.

Quale può essere invece il ruolo del cangrelor, inibitore piastrinico parenterale?

Nonostante l’introduzione degli antiaggreganti orali più potenti, ormai consolidata nella pratica clinica, le complicanze trombotiche peri-procedurali nelle SCA rimangono una preoccupazione, soprattutto nei pazienti con elevato carico trombotico. Gli antiaggreganti orali presentano limitazioni legate alla modalità di somministrazione, la quale necessariamente implica un’insorgenza d’azione ritardata dovuta all’assorbimento e, nel caso di clopidogrel e prasugrel, all’attivazione metabolica. Il cangrelor è un potente inibitore diretto e reversibile del P2Y12 ad uso endovenoso, con rapida insorgenza d’azione (entro 2 minuti), potente e costante inibizione piastrinica durante l’infusione e rapida cessazione dell’effetto (30-60 minuti dalla sospensione). Proprio la rapida reversibilità di azione lo rende un farmaco molto maneggevole ed inibendo lo stesso target di ticagrelor, prasugrel e clopidogrel, rappresenta una strategia “ponte” ideale per coprire l’intervallo di tempo lasciato scoperto dagli inibitori orali.

Quali sono le principali evidenze che supportano l’impiego del cangrelor nella pratica clinica?

Nello studio CHAMPION-PHOENIX3 cangrelor è stato confrontato con clopidogrel in pazienti sottoposti a PCI e ha ridotto il rischio di end-point primario (morte, infarto miocardico, trombosi di stent e rivascolarizzazione urgente) del 22% (HR 0.78, 95% CI 0.66–0.93, p=0.005), senza un incremento significativo dei sanguinamenti maggiori. L’effetto sull’end-point primario era guidato prevalentemente da riduzione di infarto miocardico e trombosi di stent, in particolare vi è stata anche una riduzione della trombosi di stent intra-procedurale.

In tutti gli studi di fase 3, cangrelor è stato testato contro clopidogrel la cui somministrazione era prevista al termine dell’infusione di cangrelor. Vista la lentezza di insorgenza d’azione di clopidogrel e la rapida regressione di effetto di cangrelor, questa strategia è teoricamente non ottimale in quanto implica un possibile “gap” di antiaggregazione post-procedurale. Nel recente studio CANTIC4 è stata studiata la somministrazione di contemporanea di cangrelor e ticagrelor al momento dell’angioplastica in pazienti con STEMI. Cangrelor somministrato insieme a ticagrelor ha dimostrato una più rapida e stabile inibizione piastrinica rispetto a ticagrelor da solo e non sono state documentate interazioni tra i due farmaci. Quest’ultimo dato è importante perché uno dei motivi per cui clopidogrel non veniva somministrato al momento dell’angioplastica nei trial CHAMPION era proprio la possibile interazione tra farmaci. Nonostante le piccole dimensioni e gli end-point meccanicistici di farmacodinamica non rendano possibili conclusioni sul piano clinico, i dati di questo studio supportano la possibilità di una somministrazione contemporanea di cangrelor e inibitori del P2Y12 orali di nuova generazione al momento dell’angioplastica nei pazienti con SCA.

C’è ancora spazio nel laboratorio di emodinamica per gli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa (GPI)?

I GPI sono gli antiaggreganti endovenosi con il più ampio numero di studi nelle SCA e comprendono abciximab (anticorpo monoclonale con alto peso molecolare) e le cosidette “piccole molecole” tirofiban e eptifibatibe. Questi farmaci agiscono competendo a livello piastrinico con il fattore di von Willebrand e il fibrinogeno per il legame del recettore della glicoproteina IIb/IIIa determinando un effetto antiaggregante rapido e potente. La terapia con GPI è stata associata in numerosi studi a una riduzione di MACE a spese di lieve aumento dei sanguinamenti e aumentato rischio di trombocitopenia. Negli ultimi anni l’utilizzo di questa classe di farmaci si è spostato soprattutto sul tirofiban che ha il vantaggio di essere un farmaco reversibile e di poter essere utilizzato per un periodo limitato (ad esempio solo fino al termine della procedura di angioplastica primaria), riducendo così il rischio di eventi emorragici.

Proprio il difficile bilanciamento tra il rischio ischemico ed emorragico fa si che questi farmaci vadano riservati ai pazienti con STEMI con carico trombotico elevato o comunque a più alto rischio ischemico e comunque in pazienti a basso rischio di sanguinamenti. Nei pazienti con NSTEMI l’utilizzo è generalmeente meno frequente e per lo più limitato alle complicanze trombotiche intra-procedurali ed all’impiego in “bail-out”, come peraltro raccomandato dalle attuali linee guida.

 

Bibliografia

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