Il Bicchiere mezzo pieno
di Francesco Prati
01 Aprile 2020

Nell’ultimo numero di JACC (J Am Coll Cardiol 2020;75:590–604) Madhavan et al hanno riportato i risultati di una meta-analisi effettuata  su 19 studi randomizzati, e che includeva 25,032 pazienti  trattati con impiego di stent Bare (BMS) (3,718 pz), stent medicati (DES) di prima generazione (7,934 pz) e di seconda generazione (13,380 pz).

Obiettivo dello studio era di osservare i risultati a lungo termine dall’impianto delle endoprotesi.

Si è valutata ad un anno e a lungo termine (tra uno e i cinque anni) l’incidenza di MACE (composito di morte cardiaca, infarto miocardico e rivascolarizzazione della lesione target).  La  rivascolarizzazione andava progressivamente riducendosi dal gruppo trattato con stent Bare (17,9%), al gruppo con DES di I generazione (8,2%) ed infine al gruppo con DES di II generazione (5.1%). La differenza era altamente significativa (p < 0.0001).

Figura modificata da Madhavan (JACC 2020): Linea Blu: BMS, Linea Rossa: DES I Generazione, Linea Nera: DES II Generazione

I MACE tardivi (occorsi nel periodo compreso tra 1 e 5 anni) si sono verificati nel 9.4% dei pazienti.  Nell’ambito dei MACE tardivi , la morte cardiaca si è verificata nel   2.9%, l’Infarto miocardico (MI) nel 3.1%, e la Target Resion Revascularization (TLR) nel 5.1%. I MACE si sono verificati nel  9.7%, 11.0%, e 8.3% dei pazienti trattati con BMS, DES di I generazione e di II generazione, rispettivamente (p < 0.0001).

Gli autori hanno riconosciuto gli ottimi risultati ottenuti  nel primo anno grazie all’evoluzione tecnologica, che ha visto nel gruppo dei pazienti trattati con DES di II generazione un’incidenza di MACE molto bassa, che si attestava al di sotto dell’ 1%.

Esprimevano invece preoccupazione riguardo l’incidenza di eventi ischemici nel lungo termine, che si attestava su valori al di sopra del 2% nei tre gruppi.

Non vi è dubbio che la tecnologia degli stent sia migliorabile. Il gruppo di Stone sottolinea nella discussione del lavoro che si debba fare di più, insistendo su aspetti tecnologici e migliorando la tecnica di impianto che, soprattutto in presenza di calcificazioni importanti, è spesso non ottimale.

Analizziamo separatamente  l’incidenza di infarto tardivo nei tre gruppi. E’ stata del 2,3% e del  2,6% nei soggetti trattati rispettivamente con stent bare e DES di II generazione, mentre l’incidenza di trombosi acuta nei due gruppi è risultata  rispettivamente dello 0,5 e 0,9 % (Figura). Un’incidenza di trombosi annua al di sotto dello 0,3%  che ci consegna lo studio di Madhavan et al è dunque accettabile?

 

Bene il progresso, bene la continua ricerca del risultato ottimale.

Proviamo però a vedere il bicchiere mezzo pieno dopo anni di affannosa ricerca nel cercare la soluzione ideale per trattare l’angioplastica. E’ stato un succedersi di delusioni e successi  che ha visto tassi inaccettabili di trombosi negli stent impiegati negli anni novanta, poi drasticamente ridottisi grazie all’individuazione di tecniche di posizionamento più corrette e di farmaci idonei. Dopo altri 15 anni si è ottenuto uno strumento valido per prevenire la restenosi grazie all’impiego degli stent a rilascio di farmaco (DES). Il tasso inaccettabile di trombosi dei DES di prima generazione, che nello studio Madhavan si avvicina allo 0,5% anno, ha spinto l’industria a migliorarne la tecnologia, per approdare ai DES di II generazione, con risultati lusinghieri anche nelle patologia più complesse. Questo grazie all’impiego di sirolimus come farmaco antiproliferativo, l’uso di polimeri più idonei e soprattutto la marcata riduzione dello spessore degli stent DES di seconda generazione.

Nei pazienti con sindrome coronarica acuta l’incidenza di eventi hard (morte o infarto) si può attestare sullo 0,4% anno ed è spesso dovuta all‘occlusione acuta di segmenti nativi non trattati con stent. Questa percentuale si confronta abbastanza bene con l’incidenza di trombosi del vaso trattato con DES e riportata nello studio in oggetto. E’ ragionevole che la causa principale della trombosi del DES risieda nell’aterosclerosi all’interno dell’endoprotesi che, analogamente a segmenti non trattati, può instabilizzarsi e causare l’infarto. Non c’è dubbio che il metallo favorisca un’accelerazione della progressione dell’aterosclerosi rispetto ai segmenti coronarici nativi e che pertanto i segmenti trattati con uno stent abbiano un rischio aumentato di andare incontro ad un’occlusione acuta.

Si, tutto è migliorabile e la ricerca forse nei prossimi anni ci riserverà delle sorprese, magari proponendo nuove tipologie di scaffold riassorbibili che possano prevenire la restenosi e la trombosi. Credo però che, dopo una corsa affannosa, di 30 anni, per  migliorare la tecnica di angioplastica, il bicchiere sia mezzo pieno.